Alla Mostra c’è “Diciannove”, sui dolori dello studente fuori sede. Il regista Tortorici: “Mentivo ai miei sugli esami, il cinema mi ha reso felice” (2024)

Giovanni Tortorici porta alla Mostra, sezione Orizzonti, la generazione degli studenti fuori sede e un po’ anche fuori dalla vita. Diciannove, film debutto prodotto (tra gli altri) da Luca Guadagnino, è la storia di un giovane palermitano che raggiunge la sorella a Londra per studiare business, ma la convivenza, la giostra stanca delle serate in discoteca, la prospettiva di una università a tre ore da casa, gli fanno cambiare idea. Cerca su google la migliore università di Lettere, in cima alla lista c’è Siena e quella diventa la sua meta. Ma professori ricattatori e indifferenti, lezioni poco stimolanti lo costringono a un anno accademico di solitudine e studi sudatissimi di autori italiani pre manzoniani.

La cucina è colonizzata da una cucinatrice di ragù e lui, vegetariano, compra un fornelletto per bollire le verdure in camera. Un anno dopo, Leonardo è a Torino, dove incontra un uomo, semi-conoscente di famiglia, con cui avrà un confronto più diretto del solito su ambizioni e passioni, ossessioni e nevrosi, soprattutto finte libertà. .L’emozione di essere alla Mostra con il film d’esordio?“Io sono stato a Venezia l'anno scorso, due anni fa, da spettatore. Avevo lavorato al film di Luca Guadagnino Bones and all, mi occupavo del backstage, e ne ho approfittato per venire a vedere tanti film. L’anno scorso anche da spettatore. Mi aveva emozionato vedere il poster gigante del film realizzato da Elizabeth Peyyton sul Canal grande ,mi era sembrato come chiudere un cerchio rispetto a un film a cui avevo partecipato fin dall’inizio delle riprese. Quell’immagine aveva un significato simbolico sul Canal grande notturno che risplendeva di luci. Venezia resta una città incredibile. Ma venire chiamato alla selezione ufficiale è decisamente più emozionante, surreale”.

Cosa ha imparato affiancando in questi anni Luca Guadagnino sul set?

"Il valore della praticità. Venivo dalla letteratura, che ho sempre vissuto in modo solitario. E quindi mi mancavano quelle capacità pratiche fondamentali nel cinema, in cui devi avere a che fare con una troupe, con altre persone, costantemente. Era interessantissimo vedere come Luca riusciva a persuadere anche enormi personalità del mondo del cinema americano e non, applicarsi a fare quello che voleva lui, a far seguire la sua visione. Non hai mai avuto il pensiero di voler diventare come un altro regista. Ho sempre creduto in una mia visione, l’ho sempre coltivata. E mi è sempre piaciuto l'autobiografismo: se ti riferisci molto alle tue esperienze, diventa più difficile assomigliare ai riferimenti che puoi avere”.

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Da dove è partito per Diciannove?

“Da tempo volevo diventare regista e sceneggiatore dei miei film. E puntavo ad un esordio. Avevo varie storie in mente e a un certo punto ho iniziato a riflettere su questo periodo della mia vita, a 19 anni, e lo trovavo interessante. Mi sorgevano alla mente tanti ricordi, immagini, fatti anche non eclatanti, ma narrativamente interessanti. Avevo pensato anche a storie magari che potessero essere produttivamente più allettanti, però poi l'impulso di raccontare questo tipo di storia ha prevalso. Ho scritto la sceneggiatura con la consapevolezza che sarebbe stato complicato convincere I produttori a investire su un racconto atipico, senza che io avessi precedenti. Ma è andata bene, l’ho fatto leggere a Luca che si è entusiasmato e ha deciso di produrlo”.

E’ un film che racconta una generazione, I diciannovenni di non molto tempo fa, anche a confronto con quella successiva, che cambia in modo veloce.

“Quello generazionale è un un tema per me importante nel film. L’incontro del protagonista una banda di ragazzini più piccoli a Siena è stata l’occasione per mettere a confronto due tipi di generazioni diverse, anche se appunto lo scarto di età è abbastanza minimo, cinque anni non sono tanti, eppure… mi piaceva molto l'idea di rappresentare questo, questo scarto abbastanza vistoso. Era un tema importante del film, che infatti ho chiamato Diciannove”.

Quanto è stato importante trovare il protagonista giusto? “Fondamentale. Ne ero consapevole fin dall'inizio, è un film che si regge tutto sulle sue spalle. Se avessi fatto compromessi sulla scelta, si sarebbe visto nel film.All’inizio avrei voluto un attore palermitano, il film è scritto con attenzione anche al linguaggio, ma poi abbiamo deciso di ampliare la ricerca, Firenze, Torino…e in quel caso avrei adeguato il racconto. E invece alla fine, tra I tanti casting aperti, ho incontrato Manfredi Marini, che mi ha colpito molto”.

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Il suo rapporto con la letteratura?

“La mia formazione è avvenuta sulla letteratura. Un po come il personaggio, ho iniziato con i classici da Mondadori, da Feltrinelli. Mi ricordo letteratura russa, inglese, francese, finché un certo punto è iniziata una passione maniacale per la letteratura italiana, quella che finisce con Manzoni Ero entrato anche in fissazione con le parole, il linguaggio. I miei libri in preferiti erano i vocabolari della lingua italiana, che collezionavo. Mi ricordo il Mamuzzi, il Tomaseo. La passione enorme era leggere i testi di letteratura, anche quelli più sconosciuti: i toscani del Trecento, del Quattrocento e trovare tutte quelle espressioni che non erano registrate nel vocabolario, e compilarlo. Accanto le parole del vocabolario aggiungevo l'espressione dei significati che non erano segnati, come fa il personaggio del film, che legge il Tramater, vocabolario anni Sessanta dell'Ottocento e aggiunge un'espressione che trova nelle lettere di Metastasio. E in realtà quella cosa che si vede lì a penna era scritta nel mio vocabolario mio, era una mia vecchia postilla. Tanti libri che ci sono nel film sono i miei”.

A un certo punto l'amico di famiglia dice al nostro protagonista che tutta questa libertà e scelta per un certo tipo di letteratura in realtà anche una gabbia di protezione che il protagonista si è in qualche modo costruito.

“Sì, penso sia al cento per cento una sublimazione di una nevrosi che in qualche modo lo costituisce. Questa maniacalità nello studio di questa letteratura è una deviazione di certi suoi impulsi verso qualcosa di differente. Penso che con il dialogo finale esprime una visione psicanaliticamente più saggia”.

Il protagonista è asociale, ma il suo punto di vista rispetto a certe situazioni vissute dagli studenti fuori sede, a Londra come a Siena, la povertà intellettuale di certi ambienti e una certa superficialità umana, è comprensibile.

“Sono d'accordo. Magari la via ideale sarebbe una terza. Lui si tira fuori da tantissime dinamiche che sono anche molto ridicole. Ma a causa della giovane età non ha una coscienza tale che gli fa capire il perché di questa sublimazione. Nel futuro, acquistando consapevolezza, potrebbe arrivare a seguire più I suoi impulsi reali. Nel film il personaggio è molto represso. E questo isolamento forzato deriva anche dalla sua consapevolezza nel non poter perseguire o attenersi alle aspettative della società dell'ambiente che lo circonda. Però è molto sofferente, molto represso, soprattutto inconsapevole”.

Rispetto al rapporto con l'università. C’è questa ribellione poi non viene portata fino in fondo, ma c’è una verità nel raccontare anche di professori ego riferiti, ricattatori, indifferenti.

“Questo aspetto è molto simile rispetto a quello che è successo a me. Anch'io ho fatto la l'università di lettere. Ed ero rimasto enormemente deluso nel vedere che ad esempio le le materie si studiassero, almeno nella mia esperienza, basandosi molto sulle biografie. Che gli studenti non dovessero conoscere Dante attraverso il testo ma attraverso tutta una serie di scritti bibliografica era una cosa che mi uccideva. Odiavo il non poter avere un rapporto diretto con quelli che reputavo i grandi testi della letteratura, ma doverli approcciare sempre tramite un filtro. Io avevo una fissazione su Leopardi. Ho letto praticamente tutto quello che si poteva leggere.Tra le mie letture preferite c’era l’epistolario e tramite tutti i suoi testi, che sono enormemente autobiografici, si sa che le sue prime lettere sono in francese. Che dai nove anni parlava francese, latino, greco. Aveva un bellissimo italiano, perché scriveva delle lettere buffe a dieci, undici anni. Scritti incredibilmente e io tendevo a fare paragoni: lui a nove anni poteva darmi lezioni, io a diciassette ancora mi stavo avvicinando. E quindi avevo un’ansia gigantesca sulla formazione che mi dovevo dare. Mi sentivo in ritardo e mi innervosiva perdere tempo su testi che per me non erano rilevanti per diventare un bravo scrittore. E infatti dopo aver seguito poche lezioni, feci questi esami e mi ritirai. Studiando quel che volevo, mentendo ai miei genitori, dicendo che andavo all’università ma invece seguendo il mio percorso”.

Che è successo quando I genitori hanno scoperto che lei non frequentava?

"L’ho risolta semplicemente cambiando. Passai dalla letteratura al cinema e non ho avuto bisogno di dire la verità. Lo scopriranno vendendo il film. Se lo vedranno. Poiché è molto autobiografico sono un pochino titubanti sul vederlo o no”.

Come è avvenuto Il passaggio dal cinema alla letteratura è quanto la letteratura è servita al suo cinema?

“Sono passato al cinema perché in quell'anno in cui io facevo l'università, lettere, studiavo da quando mi alzavo. fino alla notte fonda. Avevo raggiunto uno stile di vita molto estremo e penso non durabile nel tempo. Quindi, poiché le mie letture, il mio grande grande amore era Leopardi ed ero affine al suo catastrofismo rispetto alla visione della vita, diciamo che non avevo proprio visioni rosee. A un certo punto ho iniziato a immaginare un’alternativa e mi è venuto in mente il cinema per rappresentare queste storie a cui tenevo. E questa cosa mi ha molto allettato, immaginavo anche un settore più vivace, più sociale. E pian piano mi sono persuaso: mi volevo dare una speranza di felicità, contentezza. E ho proseguito su questa cosa”.

Qual è il cinema che che l’ha nutrita di più e hai avuto presente ha avuto qualche riferimento per fare questo film?

“Ho avuto molte influenze quando ai tempi della letteratura amavo moltissimo il neorealismo italiano, però penso fosse un po' il limite: a quei tempi vedevo il cinema solo tramite le categorie letterarie, quindi realismo per me era facile da capire. Poi ho iniziato a diventare più cinematografico. C’è stato un periodo acceso e fanatico sui B-movies, gli horror, I film d’azione anni Sessanta e Settanta italiani, i poliziotteschi. Fulci, Castellari, Di Leo. Mario Bava era un regista che amo tantissimo. E poi Peckinpah. Ashby, De Palma. Tantissima Nouvelle Vague. Tantissimo Godard. E poi molto Giappone e Hong Kong”.

Era in cerca di felicità. Il cinema gliel’ha data?

“Sono estremamente felice. Perché ho avuto questa opportunità immensa di poter esordire alla Mostra con un film di cui ho avuto la libertà creativa, e una grande produzione che mi ha sostenuto. È una cosa immensa”.

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